Harold Powers
«Arrigo dei poveri»
Il 15 marzo 2007 in Santa Monica (California), a quindici giorni di distanza dalla morte di Julian Budden, ci ha lasciati Harold Stone Powers – Harry per gli amici, e anche «Arrigo dei poveri» (non amava i «poteri»…), come amava definirsi lui stesso nel suo italiano fantasioso, nel quale riusciva a creare giochi di parole irresistibili, come ‘maestroso’ in luogo di ‘magistrale’.
Nato a New York il 5 agosto 1928, si era formato fra Stanford e Princeton (con studiosi del calibro di Milton Babbitt, Edward Cone, Oliver Strunk e Arthur Mendel), in un ambiente intellettuale che metteva in relazione stretta la prassi con la teoria, e che ha contribuito a orientarlo verso uno dei numerosi campi di ricerca in cui eccelleva: lo studio della musica indiana, di cui era fra i massimi conoscitori fin dalla tesi dottorale alla Princeton University (1959). Si recava in India ogni anno, o quasi, e proprio reduce dall’ultimo viaggio, nel gennaio 2006, aveva scoperto la sua malattia: non si era dato per vinto, perché arrendersi di fronte a qualsivoglia tipo di problema, teorico o pratico, non era nel suo carattere che gli imponeva di cercare sempre una soluzione, e perciò si è battuto fino all’ultimo per trovare una via d’uscita.
Powers aveva insegnato alla Harvard University dal 1958 al 1960 e alla University of Pennsylvania dal 1961 al 1973, prima di tornare a Princeton nel 1973, dov’è rimasto fino al termine della carriera, nel 2001. Tra i suoi titoli accademici vi era quello di Bachelor of Music, conseguito come pianista alla Siracuse University nel 1950, ma preferiva cantare, tanto che lo si potrebbe dire quasi un tenore mancato: cantava, Harry, molto spesso e un po’ di tutto, ma prevalentemente raga indiani e arie tenorili del grande repertorio, da Verdi a Giordano.
Harry era uno studioso di gran fama, guadagnata in diversi campi della musicologia, che corrispondono ad altrettanta vastità d’interessi umani: impossibile resistere ai suoi ragionamenti, perché sapeva trovare un argomento per tutti, dato che da tutto e tutti era sinceramente attratto. Ogni novità gli suggeriva un quesito da rivolgere al suo interlocutore, e poteva trattarsi tanto del particolare impiego di un accordo in un concerto di Mozart, quanto della drammaturgia di un fumetto, oppure della spremitura a freddo dell’olio d’oliva come di alcune note di Maria Callas. Nell’ambito del ‘canone’ occidentale (da lui più volte messo in discussione) era specialista di opera del Seicento fra i più rinomati (con preziose incursioni verso Bononcini e Händel), finissimo e sistematico analista dell’arte di Giuseppe Verdi, con una puntata telescopica su Turandot di Puccini che ha fruttato un volume a quattro mani con Bill Ashbrook (1991, tradotto in italiano nel 2006) di notevolissima importanza per gli studi sul musicista lucchese e per quelli sulla tradizione dell’opera italiana giunta all’esaurimento delle proprie risorse, secondo gli autori. Tutti lavori che, oltre a lasciare un’impronta indelebile sulla ricerca, hanno cambiato il modo di pensare nei colleghi; ma non libri, piuttosto saggi enormi, spesso pubblicati a puntate. Era questo il suo modo di esprimersi favorito, perché gli piaceva scavare fino in fondo nelle opere d’arte e restituirne travolgenti interpretazioni, senza soluzione di continuità fra lo scambio orale con chiunque lo circondasse e il fissaggio su carta delle sue idee. A Powers si deve la prima elaborazione di una delle conquiste piu` importanti nel campo dell’analisi delle forme dell’opera, la cosiddetta «solita forma», categoria rivelatasi molto fruttuosa per l’interpretazione del teatro verdiano e oltre, come mostra il volume d’atti del convegno «L’insolita forma». Strutture e processi analitici per l’opera italiana nell’epoca di Puccini, che il Centro studi Giacomo Puccini gli ha dedicato nel 2001.
Harry ha anche rivolto lo sguardo più penetrante e organico a tutt’oggi sulla teoria dei modi (attestato da una fondamentale voce d’enciclopedia del Grove), illuminato dalla sua eccellenza interdisciplinare, che gli consentiva di attraversare ogni repertorio per coglierne gli esempi più pertinenti.
Ho avuto l’enorme privilegio di seguire quello ch’è stato, forse, il suo ultimo corso universitario (2005). Già professore emerito della sua Princeton University dal 2001, Harry si mescolò a noi docenti di musicologia di Pavia-Cremona, in una Facoltà dove poteva contare su un manipolo di amici e colleghi-allievi, donando amore e cultura. Fu un grande successo, poi tornò a New York e io, fra gli echi delle melodie dei raga che avevo cantato grazie al suo insegnamento, ho ripensato sempre a quell’Uomo con l’iniziale maiuscola. In lui si concentravano tutta la carica di un giovinotto alla prime armi mescolata alla sapienza d’un centenario (conscio della sua grandezza, tuttavia mai viziato dalla superbia), la curiosità d’un bimbo, una generosità infinita, e un’eterna fanciullezza tenorile che, dopo la sua morte, ci fa sembrare il mondo ancor più stupido e vuoto.
MICHELE GIRARDI
Estratto da «Studi pucciniani», 4, 2010